Chi è Giorgio Cingolani
Giorgio Cingolani è un Antropologo, regista e sceneggiatore recanatese. Si è laureato con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'Università di Macerata, con una tesi di laurea in Storia delle Religioni sulla popolazione nomado-pastorale etiope Afar, dopo un lavoro di ricerca sul campo nel deserto della Dancalia realizzato alla fine del 1997. Successivamente ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Human Sciences sempre presso l'Università di Macerata.
Ha insegnato Antropologia Culturale dal 2006 fino al 2011 e attualmente è docente nel Laboratorio di Linguaggio Cinematografico "Claudio Gaetani" presso l'Università degli studi di Macerata.
Dal 2001 ad oggi ha realizzato in forma autonoma o in collaborazione con enti di ricerca e studiosi alcuni studi etnografici, storico religiosi e film documentari in vari paesi del mondo: Etiopia, Tibet, Valle di Spiti (India), Nepal, Madagascar, Niger e Amazzonia peruviana.
Da più di vent'anni lavora in qualità di antropologo e regista in progetti scientifici, cinematografici e sociali sul tema dell'immigrazione e nell'ambito delle periferie urbane marchigiane (Hotel House, Lido Tre Archi di Fermo, quartiere Archi di Ancona) collaborando con enti e istituzioni universitarie, enti pubblici, cooperative sociali e associazioni onlus.
Le sue pubblicazioni includono saggi accademici, libri, film, documentari e sceneggiature. E' stato ideatore e direttore scientifico dei due numeri unici della rivista di studi antropologici e di antropologia visuale "Etnografie" edita da Armando Siciliano Editore.
Ha partecipato in qualità di relatore a numerose conferenze scientifiche e divulgative come Antropologo e regista in Italia e all'estero.
E' stato ideatore e coordinatore scientifico e artistico di cinque progetti scolastici finanziati nell'ambito del bando ministeriale MiBACT E MIUR del Piano Nazionale Cinema per la scuola nel 2019/20 e 2020/21.
Nel 2022 è stato regista, autore del soggetto e della sceneggiatura del suo primo lungometraggio di finzione dal titolo "Neve e sangue" prodotto dalla Arbash scarl di Pasquale Scimeca e Linda di Dio, vincitore del premio speciale della giuria al 76° Festival Internazionale del Cinema di Salerno. Attualmente è in fase di sviluppo il progetto cinematografico "Le combat" ambientato a Dakar in Senegal.
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NEWS
Progetti cinematografici
"NEVE E SANGUE" (2022) 84 min.
Regia e soggetto: Giorgio Cingolani
Sceneggiatura: Giorgio Cingolani con la collaborazione di Costanza Saccarelli e Maria Elena Fermanelli
Produzione: ARBASH scarl di Pasquale Scimeca e Linda Di Dio con il sostegno della Regione Marche attraverso il Bando Filiera cineaudiovisiva - Fondi POR FESR 2014-20, di Marche Film Commission - Fondazione Marche Cultura e MIC
Sinossi: Centro Italia. Monti Sibillini. Sei anni dopo una terribile serie di ter- remoti che distrusse gran parte dei paesi della zona montana, il vecchio contadino Giuseppe vive isolato in una vecchia cascina con i suoi animali. Le avverse circostanze e la ricostruzione che tarda ad arrivare, costringono Giuseppe a considerare una scelta dolorosa: trattare con il sindaco Alfredo Moretti che vorrebbe che vendesse il suo podere per sviluppare un grande progetto speculativo per rilanciare l'economia turistica del territorio. Giuseppe sta per accettare la proposta quando il destino lo chiama ad affrontare una drammatica realtà di disoccupazione illegale che lo convince a resistere ancora.
Il film è stato presentato in anteprima e premiato con una targa speciale della Giuria al 76° Festival Internazionale di Cinema di Salerno.
PROGETTI CINEMATOGRAFICI IN PRODUZIONE
"LE COMBAT" (2023-24)
Regia, Soggetto e Scenaggiatura: Giorgio Cingolani
Produzione: View di Giorgio Cingolani e Approdi Srl
Il film è in fase di sviluppo ed è ambientato a Dakar in Senegal.
ARTICOLI IN EVIDENZA
“A CHE ORA È LA FINE DEL MONDO?”
di Giorgio Cingolani (31 Luglio 2020)
Il 23 gennaio 2020 l’Orologio dell'apocalisse (Doomsday Clock[1]) è stato regolato dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell'Università di Chicago, 20 secondi in avanti arrivando ad appena 100 secondi dalla mezzanotte che, metaforicamente, rappresenterebbe la fine del mondo e il pericolo dell’estinzione dell’umanità. Dopo l’emergenza globale ed estesa del Covid, è facile pensare che, nel 2021, ci sarà un ulteriore spostamento delle lancette verso il Doomsday. Questa notizia mi ha fatto venire in mente la famosa trasmissione radio La guerra dei mondi di Orson Welles che, nel 1938, scatenò il panico in tutti gli Stati Uniti d’America, facendo pervenire innumerevoli telefonate al centralino del New York Times. In particolare, le cronache dell’epoca riportano la chiamata di un uomo che chiese preoccupato: A che ora è la fine del mondo?
Ormai, le catastrofi ordinarie e quotidiane, locali e globali sono paventate come se fossero sempre più prossime e inevitabili e appaiono, con toni sempre più allarmistici e preoccupanti sui media, costantemente evocati come se la fine, ossia il limite e l’imperfezione, sotto forma di fragilità delle nostre vite, siano qualcosa che impedisce la vita e, invece, ne è l’essenza. Come la diversità delle specie viventi ne è la linfa vitale. La nostra idea folle di pensare di essere posti su una linea di crescita esponenziale e inarrestabile, fatta di sempre nuove acquisizioni, insieme all’idea del progresso come processo ascendente, teso a migliorare automaticamente e sistematicamente la vita delle persone, ha allontanato dalla coscienza e consapevolezza collettiva, tutti gli aspetti “negativi”, come la morte, la malattia, il dolore, l’invecchiamento. Svuotata del concetto di tempo e di scadenza, di perdita e di precarietà, anche la vita individuale perderebbe ogni progettualità, ogni tensione alla perfettibilità o al miglioramento di sé all’interno della società e di conseguenza all’interno del ambiente naturale in cui viviamo.
“Le magnifiche sorti e progressive”[2] che Giacomo Leopardi non ha timore di deridere e criticare, poggiano sulla convinzione che l’universo abbia per fine l’uomo e questo antropocentrismo carico di superbia, che si potrebbe etichettare come narcisista, ci fa scambiare il concetto di crescita e di sviluppo come sinonimi di concetti contro i quali dovremmo, invece, trovare il coraggio di combattere: produttività, efficienza, competizione e competitività cui si accompagna la percezione dell’aggressività come valore, l’incapacità di ascolto e la mancanza di empatia, l’assenza di dialogo. A ciò si aggiunge una totale assenza di una collettività intellettuale che interagisca con la sfera politica per unire le forze nel tentativo di comprendere e migliorare il mondo in cui viviamo e prendere decisioni sui bisogni effettivi delle persone. La cultura stessa, invece, sembra ormai diventata solo mero strumento di notifica di ciò che ci è stato tramandato, ciò che è stato detto anteriormente e, di fronte alla complessità del presente e ai cambiamenti e stravolgimenti del mondo contemporaneo, rimane senza risposte, senza soluzioni.
La crisi seguita alla diffusione del COVID19 è una crisi globale ed è proprio questa sua natura che rende evidente la fragilità del nostro modello di sviluppo e di vita. Allo stesso tempo, la diffusione del virus e il conseguente lockdown esteso in molti paesi, hanno permesso di far emergere qualcosa che ai più era poco evidente, e cioè, che esiste davvero un sistema economico mondiale, ma che non è impossibile fermarlo (come ci hanno fatto credere per decenni) o almeno rallentarlo per scendere (perché no?), o tentare di cambiare direzione, senza per forza andare fuori strada.
Ci si interroga sul “futuro”: cosa cambia adesso? Come vivremo d’ora in avanti? Domande oziose che non entrano nel nocciolo della questione: che da un punto di vista psicologico “siamo più preparati alla fine del mondo che alla fine del capitalismo”[3]. Il senso di paura che ci ha pervasi non è legato, infatti, solo alla possibilità di non riuscire a superare le crisi cui siamo stati esposti, ma molto di più al senso di impreparazione generale, al vuoto che ne è conseguito per la paura di perdere radicate e appaganti abitudini (per di più con la netta sensazione della futilità e inutilità delle stesse, indotte come sono, per la maggior parte, da uno stile di vita consumistico e dalla ricerca continua di svago e distrazione) e dalla netta percezione che chi governa i nostri destini non sia stato in grado di affrontare l’emergenza, lasciando esposte e vulnerabili alle conseguenze più estreme le persone più deboli e fragili da un punto di vista economico e sociale. Di contro, però, abbiamo forse preso coscienza, una volta per tutte, che il sistema economico mondiale in cui viviamo non ha alcun progetto per il nostro futuro e non può immaginare alcun futuro al di là di se stesso.
Eppure, da più parti si è auspicato che il virus potesse essere la grande occasione che aspettavamo per cambiare finalmente la nostra vita e il mondo in cui viviamo, anche se c’è chi invece vede in esso una formidabile possibilità di fare pressione per potersi sbarazzare di ciò che rimane dello stato sociale, della rete di sicurezza per le persone più marginali e povere, di quello che rimane delle normative per la tutela dell’ambente e così via.
Da dove ripartire allora? Quale modo scegliamo di stare dentro la vita e come vogliamo agire? Un segnale importante è che, in assenza di un nemico in carne ed ossa da combattere vis a vis, quando gran parte della popolazione era confinata in casa, dopo un primo momento di spaesamento e disorientamento, ci si è scoperti bisognosi degli altri e pronti ad aiutare gli altri, perché tutti conosciamo persone chiuse in casa da sole che non avevano il necessario per mangiare e andare avanti, oppure persone sole che cercavano di non impazzire, tutti conosciamo persone con situazioni familiari difficili che la segregazione in casa ha peggiorato, tutti conosciamo qualcuno che si è ammalato o che ha perso un familiare. Quando si parlava di crisi apocalittiche o fine del mondo non si immaginava certo questo. D’improvviso, tutti abbiamo avuto il modo di pensare e riflettere su noi stessi, sulle nostre vite e su ciò che vorremmo che venisse fatto, o quello che sarebbe necessario venisse fatto, per migliorare la nostra condizione di vita. Si è fatta avanti la richiesta, la pretesa di un mondo migliore. Dove eravamo mentre tutto questo accadeva? Il futuro d’improvviso è passato qui, davanti ai nostri occhi, ma il futuro non è speranza e non è il tempo della nostra salvezza. Il futuro è il tempo che sarà, il tempo che passa, nient’altro. Non arriverà nessuno a risolvere i nostri problemi. Il covid è solo uno dei problemi che attraversano il mondo e come gli altri non sparirà molto presto, ma quello che stiamo vivendo non deve essere il momento per trovare il senso della vita, o per scoprire se stessi, ma è il momento di agire politicamente, parlare del valore etico e morale delle nostre azioni e scelte, recuperando il senso critico ed evitando il conformismo, tenendo bene a mente, come scriveva Carlo Levi, che la paura è il contrario della libertà.
note
[1] L’'orologio dell'Apocalisse' (Doomsday clock) è una iniziativa creata nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell'Università di Chicago che consiste in un orologio metaforico che misura il rischio di una ipotetica fine del mondo a cui l'umanità è sottoposta.
[2] https://online.scuola.zanichelli.it/testiescenari/files/2009/05/pp976-983.pdf
[3] È uno degli slogan coniato ai tempi delle proteste del movimento Occupy Wall Street.